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Intervista in margine al volume:

Carlo Lapucci – Chiara Lapucci, Analisi de “La Terra Desolata”  di T. S. Eliot

 

Gentile prof. Lapucci

I. Questo suo nuovo libro su “La Terra Desolata” di Thomas Eliot ripropone il suo interesse su quanto la spiritualità abbia ispirato molti grandi autori in campo letterario e poetico. È un interesse che condividiamo profondamente. Ci vorrebbe innanzitutto raccontare come la sua attenzione si sia fermata su questa opera di T.S.Eliot?

L’attenzione su Eliot è nata per me da una stanchezza della cultura francese che nel secondo dopoguerra veniva proposta dalle istituzioni culturali e da gran parte dei letterati e degl’intellettuali. Siamo stati allevati nell’ammirazione e nel rispetto dei francesi che già dall’inizio del Novecento però cominciavano a non essere più degni della loro secolare tradizione e tornavano ad essere i campioni della moda, della retorica, della posa, dell’enfasi e nelle loro parole non ci si ritrovava più il mondo contemporaneo, anche se non facevano che parlare di innovazione, attualità, moderno, sperimentale e tutti quei ritornelli che oggi non sono scomparsi.

Parlo della mia esperienza, di come ho vissuto; non voglio assolutizzare queste valutazioni, ma oltre che nella poesia questo lo avvertivo anche nella narrativa (salvo Céline), nell’arte figurativa e nel cinema dove si apprezzava sempre più la velleità e la calligrafia.

Avvertii così che il mondo anglosassone (non quello americanizzante di Pavese, Vittorini, ecc., che fu una moda) aveva da offrire qualcosa di più solido, e mi avvicinai a quei poeti che gravitano intorno alla figura di Eliot e la sua generazione. La lettura della Terra desolata fu una rivelazione di come si poteva affrontare quest’immensa crisi umana e spirituale, che rischia di travolgerci, senza perdersi nell’autocompiacimento, nella retorica, nella fuga nel passato, nelle scorciatoie, nelle pose, alle quali si prestarono molto il marxismo e il neo esistenzialismo d’allora.

Il poema era stato scritto da uno scettico tormentato, che poi giunse alla conversione. Presentava una ricognizione del panorama spirituale di grande realismo, non si prestava a facili emozioni, tanto è vero che la Cappella del Graal è vuota e deserta.

Mi interessava molto come si potesse proporsi di vivere una religiosità autentica, senza una fuga, senza il sostegno degli antichi, illustri e per il tempo validi apparati di riflessione, avendo nella debita considerazione le mutazioni, i terremoti operati dalla visione scientifica, dalla rivoluzione industriale, da quella sociale, dallo squallore del consumismo, della globalizzazione, dalla desertificazione morale, operata da due guerre mondiali, dalla devastazione del pianeta. Cercavo qualcuno di sincero, uomo del suo tempo, con cui parlare spregiudicatamente dei problemi reali, e questo mi è parso Eliot.

Si tratta d’un pensatore che comincia a guardare la radice di questa immensa frana e la individua, come fenomeno vistoso, nel Rinascimento, poi nell’Illuminismo e le correnti culturali fino a noi, non per maledirle, ma per indagarle, vedere come il Re Pescatore ha saputo rispondere, o non ha risposto alle richieste che la modernità stava imponendo inesorabilmente.

Un uomo che chiedeva aiuto al passato (metodo mitico, Dante), ma non come rifugio caldo comodo, insicuro, precario, con ipocrita certezza che qualcuno penserà alla salvezza. Il poema comincia proprio con questa musica: le radici che sotto la terra dormono dimentiche e cercano di prolungare il loro sonno invernale, allontanando il risveglio per l’ignavia e la paura di perdere il covile tiepido che le preserva, fino alla morte e la dimenticanza.

Così il poema è entrato tra i miei testi di riferimento fino a quando non ne ho avuto bisogno anche per un uso pratico, per cui ho cominciato a farci uno studio metodico che è iniziato come parte del corso alla Facoltà Teologica dell’Italia centrale di Firenze da me tenuto per molti anni per la materia Cristianesimo e letteratura contemporanea. La lettura di tale opera risultò talmente proficua per gli studenti, ai quali va ancora l’affetto e la gratitudine, che la feci parte integrante del corso annuale, senza mai tralasciarla. Vero è che, arrivati a comprendere e ad assimilare questa non facile opera, uno studente, come un lettore volenteroso, si trova la porta spalancata sul mondo della poesia, della letteratura moderna e sulle più vive tematiche del mondo contemporaneo.

Così ogni anno andavo affinando questa lettura mettendola sempre più alla prova e alla portata degli studenti che non hanno mai nascosto il gradimento di tale indagine, spingendomi sempre più a non mutare il testo, dato anche che mi è risultato impossibile trovarne un altro che potesse sostituirlo con altrettanta validità, ricchezza di aspetti formali, risonanze di esperienze passate e presenti, elaborazione di elementi culturali, riferimenti ad altri capolavori della poesia universale, aspetti storici, spirituali, religiosi, mitologici, culturali di immediato e contemporaneo interesse.

Tale lettura avrebbe desiderato fare, per suo personale desiderio, anche mia figlia Chiara, ma per ragioni di lavoro non ha potuto seguire il corso, che pur si ripeteva regolarmente. Per accontentarla le promisi che lo avrei fatto solo per lei, nei periodi e momenti che gl’impegni ci avessero lasciati liberi. Mi prese in parola e, siccome è una donna di carattere e tenace, cominciammo nelle vacanze, nei fine settimana, nei momenti liberi, a leggere La terra desolata.

Ci rendemmo conto che, posto in questi termini il lavoro, non si trattava più di lezioni impartite, ma un dialogo, una lettura a due, con reciproci apporti, operazione nella quale Chiara portava il bagaglio di conoscenze scientifiche aggiornate, che sono parte della sua attività professionale, la sua esperienza non più d’alunna ma di interlocutore adulto e una valida conoscenza della lingua inglese.

Così cominciammo, devo dire diversi anni fa, il lavoro, che per l’eroismo, la buona volontà e la tenacia di Chiara è proseguito, diciamo lucrezianamente, per intervalla insaniae, fino ad arrivare in porto. Si è trattato di superare anche lunghe interruzioni imposte dalla vita, non ultima quella del covid, con tutto ciò che è dovuto al lavoro, alla vita, alla famiglia, alla salute e ai vari intoppi.

Secondo il mio metodo già condividevo attivamente il lavoro di lettura, quasi una lectio medievalis, con gli studenti della facoltà, che ancora ricordo con simpatia e gratitudine, giovandomi dei loro apporti e profittando dei loro stimoli e apporti. La ricerca con Chiara è stata un lavoro diverso: più approfondito, attivo e complesso: l’analisi, l’interpretazione si è arricchita di altre conoscenze diverse e di un’altra anima, con stimoli diretti senza formalismi, con richieste chiare di ampiamenti e anche insistenti, contributi, osservazioni, divergenze, completamenti, inviti ad approfondire, cose che la parentela e la lunga amicizia permettevano senza nessun diaframma. Un lavoro a due: molto più completo, verificato, controllato fino, a ottenere un testo che ci è sembrato potesse essere uno strumento utile per qualunque persona con un po’ di cultura, per avvicinare questo capolavoro che ormai la critica giudica universale.

Tale è il nostro tempo, intricato e ambiguo, di cui il poeta inglese ci ha dato già nel 1922 una tempestiva radiografia, che per noi, come per molti dei miei alunni, è stata un valido supporto e punto di riferimento nella ricerca dell’incerto cammino. Per questo abbiamo proseguito nel vestire, se non a festa, almeno decentemente il lavoro per la stampa, in modo che possa essere letto e consultato agevolmente, procurando quegli aiuti, quei chiarimenti, quel bisogno di bellezza, quelle emozioni e quelle scoperte di cui l’uomo del nostro tempo mostra d’avere tanto bisogno e di cui la vita culturale dei nostri anni è tanto avara.

 

II. Ci vuol riassumere in due parole i tratti fondamentali della vita di questo Premio Nobel anglosassone?

Thomas Stearns Eliot, poeta, critico letterario, drammaturgo statunitense naturalizzato britannico, è nato a St. Louis nel Missouri il 26 settembre del 1888 ed è morto a Londra il 4 gennaio del 1965. Di famiglia borghese s’iscrisse nel 1906 alla Harvard University trasferendosi poi a Parigi nel 1910, frequentando alla Sorbona le lezioni di Bergson ed entrando in contatto con i simbolisti francesi. Nel 1911 tornò in America laureandosi in filosofia alla Harvard University. Nel 1914 ebbe una borsa di studio per il Merton College di Oxford.

Nel 1915 sposò, col parere contrario dei genitori, Vivienne Haigh-Wood, già sofferente di disturbi nervosi, dando inizio a un matrimonio che avrà esito infelice: si separarono nel 1933, però senza mai divorziare. Vivienne lo introdusse negli ambienti londinesi più prestigiosi come la cerchia di Bertrand Russell, condividendo la sua vita intellettuale. Fattesi più gravi le sue condizioni mentali, i coniugi si separarono nel 1933 e lei venne messa in una clinica fino alla morte che avvenne nel 1947. Era nata nel 1888. Da questa vicenda si portò sempre dietro un senso di colpa che segnerà profondamente la sua personalità. Nel 1957 Eliot sposò la seconda moglie Esmé Valerie Fletcher.

Nel 1917 a Londra si impiegò in una banca passando poi a dirigere la casa editrice Faber and Faber. Nel 1927 divenne suddito britannico e nello stesso anno si convertì aderendo al ramo anglo – cattolico della chiesa anglicana.

La sua opera prese forma nell’ambito del movimento detto Modernismo, attivo tra il 1912 e la Seconda guerra mondiale, del quale fecero parte James Joyce, Ezra Pound, Virginia Woolf e altri. Il Modernismo era particolarmente interessato alla tecnica della composizione letteraria, dove si svilupparono idee nuove, alla cultura del Seicento inglese, a John Donne e ai poeti metafisici, rifiutando però il passato della tradizione letteraria vittoriana. Del Modernismo fu sensibile particolarmente alle istanze che mostravano interesse e partecipazione alla crisi del mondo occidentale e non solo culturale. Fece sua anche la tecnica di composizione tradizionale, passando poi a un testo frammentario, pieno di contrasti, lontano dalla partitura ordinata e logica della classicità, mirando a recuperare l’immediatezza primigenia, l’efficacia della creazione poetica e l’operazione frammentaria e a sprazzi della mente.

Si pose inoltre, in senso generale, i problemi del rapporto della poesia nell’ambiente contemporaneo, davanti alle istanze del mondo scientifico, alla perdita con le forze della tradizione e la condizione di isolamento e d’impotenza dell’artista in un mondo dissacrato, materializzato, permeato sempre più da una visione meccanicistica.

Particolare importanza ebbe il rapporto di amicizia con Ezra Pound, da principio molto stretto e fecondo: Pound gli aprì l’ambiente londinese, la sua grande esperienza e la cultura, arrivando a intervenire anche nei suoi manoscritti. Nemico del capitalismo che identificava col sistema dell’usura, incline fortemente alle posizioni conservatrici, sempre più corrivo a un tecnicismo e ad un’ingegneria della composizione poetica, ben oltre le idee del Modernismo, fino a un vero cerebralismo, i rapporti con Eliot si affievolirono.

Nel 1922 esce La Terra desolata, opera che lo colloca tra le principali voci poetiche europee ed Eliot diviene sempre più un punto di riferimento per la cultura non solo nazionale. Seguono le grandi opere: Il mercoledì delle Ceneri (1930), Gli uomini vuoti (1925), I Quattro quartetti, I Cori daLa Rocca” (1934), i drammi tra i quali spiccano L’assassinio nella Cattedrale (1935), La riunione di famiglia (1939) e i fondamentali saggi, in particolare su Dante Alighieri.

Nel 1948 gli venne conferito il Premio Nobel per la letteratura e nel 1968 morì a Londra per enfisema.

 

III. Perché il titolo “La terra Desolata”?

La terra desolata è il mondo attuale senza fede, senza speranza o con speranze futili e in gran parte anche senza carità. Prende la metafora dalla più grande impresa, la lotta assoluta e decisiva, narrata dal mito cristiano della cavalleria: la lotta sostenuta per la salvezza umana, per la rigenerazione del genere umano, caduto preda del Male, che viene riscattato dal gesto del Cavaliere dei Cavalieri il quale compie l’impresa esemplare in nome dell’intera umanità. Questo Cavaliere diviene simbolo di ogni uomo perché ogni uomo ricerca nella sua attività Dio. Per questo diviene il punto di riferimento: il suo gesto si associa alla morte del Salvatore: Cristo è il primo cavaliere che assume sulle sue spalle il male, lo vince per tutti e dona a ciascun uomo l’immortalità.

Tutti i romanzi cavallereschi hanno in controluce il concetto della ricerca, la recherche dell’ultimo lascito di Cristo: il suo sangue salvifico che si versa nel bacile, nella coppa di Nicodemo al momento che la lancia di Longino attraversa il costato di Cristo in croce facendone uscire sangue e acqua.

I cavalieri della ricerca si muovono in una terra desolata, dove non cresce più vegetazione, colpita dall’infecondità con i campi sterili, la gente sperduta: un mondo destinato a dissolversi, con molte consonanze con la realtà attuale.

La ragione di questo declino sta nel fatto che il re della Terra, il Re Pescatore, siede infermo, ferito, sterile e incapace di generare. Egli pesca nel fiume ma i pesci non appaiono. La salvezza della sua esistenza è che qualcuno operi la scoperta dell’unguento risanatore della ferita, restituisca salute al re e a sua volta il re la riversi nella terra. L’elemento salvifico è il Santo Graal.

È evidente il riferimento all’antico simbolo cristiano del pesce, immagine di Cristo. Da qui discendono molte altre considerazioni e allusioni che portano nella direzione del Papa che ha l’Anello Piscatorio, in ricordo degli Apostoli (pescatori d’uomini), per cui lo stesso S. Pietro era un pescatore. Da tutto l’insieme discende la necessaria conseguenza che molti vedono nel Re Pescatore la Chiesa malata che ha mancato il suo compito.

Questo santo vasello, il santo Graal, ha capacità miracolose straordinarie per cui fugge nel tempo da una mano all’altra, da una località all’altra, e la sua apparizione ridona vita al mondo, mentre la sua sparizione oscura e inaridisce la terra.

Il Cavaliere dunque ricercherà il Graal, lo troverà, lo riporterà nel mondo e la sua visione salverà di nuovo la Terra desolata dal male.

Questa mitologia preesiste al cristianesimo, nel senso che la stessa caratteristica del Graal la ha avuta il lignum crucis, il quale proviene dall’albero nato da un seme gettato dall’Arcangelo Michele nella bocca di Adamo morente. Nacque così l’Albero della Vita che una volta morto fu tagliato, oppure vagò come tronco fino a costituire il ponte su cui passò la Regina di Saba che ne avvertì la forza miracolosa. Nei tempi successivi il legno finì nella piscina probatica in Palestina, le cui acque guarivano dalle malattie. Poi fu tagliato per farne una croce su cui morì Cristo.

Molte speculazioni furono fatte su queste poesie ispirate alla visione cristiana della cavalleria e in particolare due grandi testi, uno è La ricerca del Graal e l’altro, sullo stesso argomento, di Chrétienne de Troyes.

Questo mito va a colludere con tutti i riti di fecondità che furono presi in analisi nel Ramo d’oro di Frazer, e la Weston ne trasse il saggio che sta all’origine della Terra Desolata.

 

IV. Quali aspetti del poema lo hanno colpito di più?

Volutamente disarmonica, secondo i canoni tradizionali, la composizione non è un canto, non è sostenuta unitariamente da cima a fondo, è diseguale, ma presenta momenti di grande bellezza e profondità, soprattutto nel restituirci nell’essenza i tempi della nostra vita quotidiana dove si rivela la miseria e la povertà del nostro spirito e la caratura umana. La figura di Tiresia, gli amori squallidi della segretaria e dell’impiegato della City, il dialogo nel caffè delle due donne, le prostitute lungo le rive del Tamigi, Madame Sosostris, la città irreale, la folla che sfoga dalle gallerie della metropolitana.

Il connotato più interessante è la continua descrizione della scomparsa dell’amore nei rapporti umani: amore di ogni tipo, da quello materiale a quello fraterno, spirituale, con insistenza sul manifestarsi della violenza fino allo stupro, segno dell’attenuarsi di un amore più grande e coinvolgente, per cui le società si presenta come un insieme d’estranei.

Altro aspetto stupefacente è la contemporaneità di sistemi di pensiero, di opere d’arte, di figure ed eventi storici che s’intrecciano con gli elementi del presente e li illuminano, raggiungendo la chiarezza del segno e del significato e soprattutto la rappresentazione unitaria del nostro tempo, cosa che è quasi un miracolo se si pensa che è un poema decisamente frammentario.

 

V. Vi sono contenuti simbolici o metaforici di interesse spirituale?

D’interesse spirituale sì, e anche religioso. Non ci sono contenuti confessionali specifici, il quanto il poema guarda il modo di porsi davanti alla trascendenza e al divino, tralasciando la pratica specifica e guardando se mai al rito. Per questo il poema parte da un rito pagano per arrivare a uno cristiano e ogni passaggio riguarda essenzialmente il processo di rigenerazione, di rinascita, di attuarsi dell’uomo nuovo, della purificazione. In sintesi un battesimo definitivo dell’uomo, che lo riscatti dal proprio egoismo e lo ponga come creatura davanti al cosmo e al divino.

Il simbolo naturalmente la fa da padrone e anche la metafora è l’espressione fondamentale e tutto converge alla comprensione della vita e della realtà dello spirito. Quindi nulla di devozionale, ma certamente tutto religioso nell’accezione più ampia del termine.

 

VI. Si colgono in Eliot dei semi di speranza?

L’importante di questo testo è che di per sé non dà nessuna speranza. È una ricognizione e una descrizione della nostra vita senza speranza, poiché l’egoismo e la mancanza di amore hanno messo l’egoismo prima della vita, prima d’ogni altro valore, spegnendo la fede. Il poema indica che finché non si rompe questo torpore, questo tradimento della vita, il Re sarà malato e la terra resterà desolata.

L’unica speranza è le fede, non necessariamente identificata e istituzionalizzata, ma fede che riesca a far uscire l’uomo dal bozzolo del suo individualismo e del suo egoismo.

Del resto nel caso del cristianesimo la speranza per il credente consiste nel trovare Cristo, crede il Lui, seguirlo, fare il possibile per vivere secondo al sua parola, amando il prossimo come se stessi, e rimettersi alla volontà di Dio.

 

VII. Secondo lei è possibile fare dei parallelismi con altri autori dello stesso periodo?

Eliot presentò l’opera prima in rivista nel 1922 e la pubblicò presso la Hogarth press nel 1923. L’anno, 1922, può essere preso per indice d’un periodo particolare per gli eventi che accaddero e le opere che furono pubblicate. Questi fatti rivelano a una lettura attenta la condizione d’angoscia in cui vivevano i popoli europei, usciti dai massacri insensati della Guerra mondiale: mentre le rovine materiali stavano sparendo, l’incubo spirituale e lo sfacelo morale erano cresciuti e dilagavano creando negli animi uno stato di smarrimento che accentuava le speranze di uscirne mediante un evento eccezionale, se non prodigioso. Al tempo stesso la condizione di disorientamento preparava a rassegnarsi a esiti autoritari, di forza, di rinuncia a garanzie che sono state inefficaci e gli eventi lo confermarono dando l’avvio alla costituzione di dittature che saranno la dannazione di tempi venturi.

In Italia dal marasma post bellico prende sempre più forza il fascismo e Mussolini forma il primo ministero. Cosa significativa è il fatto è che arriva al governo con un legittimo incarico del re, quindi con un consenso dell’autorità prevista dallo Statuto albertino.

Con l’inizio dell’anno cambia il Papa. Il 6 febbraio 1922 sale al soglio pontificio Pio XI, succedendo al defunto Benedetto XV.

Mustafà Kemal (Ataturk) s’impadronisce definitivamente del potere in Turchia, abolendo il sultanato che era stato fondato nel 1302.

In Russia, dopo la rivoluzione bolscevica, si ammala gravemente Lenin che muore nel 1924. Prende sempre più il potere Stalin, imprimendo una svolta sempre più autoritaria, dittatoriale e sanguinaria al governo d’una grande nazione come l’Unione sovietica. La Russia rivoluzionaria diviene Unione delle repubbliche socialiste sovietiche.

Esce la Terra desolata, che secondo noi contiene anche altri messaggi, ma che costituisce un bilancio, un resoconto di un disastro e d’un inaridimento generale della Cristianità, con la disperazione e lo spaesamento generale.

Fritz Lang in Germania gira il film Il dottor Mabuse, metafora variamente interpretata, ma certamente incentrata sul sistema autoritario e l’orrore dei suoi mezzi. Di F. W. Murnau esce il film Il vampiro

James Joyce pubblica il romanzo Ulisse. “Alla più complessa psicologia fa riscontro in Joyce una eticità così sfilacciata da apparire rudimentale: il suo mondo non è meno squallido di quello descritto nella Waste land, ma nella sua inquietudine d’incubo non s’agita neppure quel fermento della disperazione, quell’ansia di purificazione che dovevano spingere Eliot a cercare un punto d’appoggio nella fede” (M. Praz, Storia della letteratura inglese, Sansoni, Firenze, 1967, pag. 696).

Mentre Wagner, soprattutto in Germania, trionfa intesa come inno grandioso corale e celebrativo del popolo tedesco, esce l’edizione definitiva del Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler, essendo già notissima la prima parte uscita nel 1918. Nell’opera, insieme a molte altre idee controverse, rifiutate e dibattute, si enuncia che, secondo l’analogia con gli organismi vitali, anche le civiltà nascono, crescono, declinano e muoiono, prevedendo per l’Europa, come per il dominio di Roma e di altri imperi della storia, un lungo, ma inesorabile tramonto.

Nell’opera si prospetta una visione diversa del tempo, della storia r del mondo ben diversa a quelle che fa da supporto e si combina con la visione scientifica che ha il suo cardine nella fede nel progresso. La visione causale delle cose è vista come una apparenza illusoria che spiega i fenomeni materiali senza dar ragione del mistero della vita. Scrive Spengler:

“Esiste in ogni essere una logica organica, una logica istintiva, da sogno e pur certa, opposta a una logica dell’anorganico, dell’intelletto e dell’oggetto dell’intelletto. Esiste una logica della direzione opposta a una logica dell’estensione. Nessuno spirito sistematico, nessun Aristotele e nessun Kant ha saputo tenerne conto. Costoro sanno parlarci di giudizio, di percezione, di attenzione di memoria, ma tacciono circa ciò che parole come speranza, felicità, disperazione, pentimento, devozione, protervia racchiudono […].

La causalità è qualcosa di razionalistico, di deterministico, di esprimibile, è il segno del nostro essere desto intellettuale. Destino invece è il nome per una certezza interna che non si può descrivere. La natura del causale la si può chiarire mediante un sistema di fisica o di critica del conoscere, mediante numeri, mediante l’analisi concettuale. L’idea di destino la si può comunicare solo come artista, mediante una pittura, mediante una tragedia, mediante la musica. L’una cosa richiede una separazione. L’altra è in tutto e per tutto una creazione, donde la relazione del destino con la vita e della causalità delle morte […].

Non vi è uomo a cui essa [l’idea di destino] sia del tutto estranea e solo l’uomo tardo re sradicato delle grandi città, col suo senso pratico e la potenza meccanizzante del suo intelletto, può chiudere gli occhi dinanzi ad essa, fino a che nell’anima ora gli si erge dinanzi, con una chiarezza terribile a sconvolgere ogni causalità del mondo esteriore […].

La storia vera è satura di destino, ma è libera da leggi. Il futuro lo si può presentire (ed esiste uno sguardo capace di penetrarne i segreti), ma non lo si può calcolare. La sensibilità fisiognomica mediante la quale da un volto si può capire tutta una vita, dall’immagine di un’epoca la sorte di interi popoli, d’istinto, senza un sistema, è assolutamente lontana da tutto ciò che è causa e effetto.

Questa prospettiva ribalta completamente la visione scientifico positivista che aveva portato irrimediabilmente allo sfacelo inutile e folle della Seconda Guerra mondiale con le conseguenze disastrosa che aveva avuto per l’Europa, i cui abitanti cercavano smarriti una soluzione. Il Tramonto parve offrirla indicando gli errori e le origini, ed ebbe un successo strepitoso per cui pervase del suo pensiero, che aveva in sé  anche i germi e la filosofia della dissoluzione, altri sistemi, altre correnti, comprese quelle che sono entrate nella visione di Eliot. È sparito però con quanto aveva di innovativo sotto l’abbraccio mortale della Germania nazista che preparava la devastazione definitiva dell’Occidente.

La visione spengleriana, che ha anche naturali e pericolose implicazioni politiche, presa come interpretazione del destino esistenziale dell’uomo e dell’umanità, avrà ripercussioni notevoli in figure come Henry Miller, nella disperata ricerca vitalistico-anarcoide d’un esito di liberazione e di salvezza, e correnti come la Beat Generation alla ricerca di un’uscita da un mondo borghese perduto nell’inutilità e nel conformismo, soffocante e mortale.

Tale clima apocalittico era stato già sintetizzato, e al tempo stesso ambientato nella meschinità della Germania in disfacimento del dopoguerra, dall’opera: Gli ultimi giorni dell’umanità (1918) di Karl Kraus, enorme dramma espressionistico. L’autore si pone in aperta opposizione col pensiero dominante del tempo, con la sordida burocrazia austriaca e il delirante entusiasmo della guerra.

Il paradigma assunto da Eliot per tutto il poema è costituito dall’opera fondamentale per l’interpretazione del mito: Il Ramo d’Oro di Frazer, un libro di molti volumi che, prendendo le mosse da un antico rito pagano del Lazio, ripercorre la mitologia antica ricercandone il senso e l’interpretazione.

È un testo di antropologia, con difetti, abbagli, come tutti gli studi, ma che raccoglie in un unico discorso questa grande creazione condivisa da tutti i popoli dalla loro origine, che è il mito. Da questo una studiosa inglese nel 1920, L. W. Weston, aveva ricavato uno studio From ritual to romance, ripercorrendo l’opera di Frazer alla ricerca dei riti che potevano spiegare l’origine del grande romanzo d’amore e d’avventura che è il poema medievale La ricerca del Graal.

In sostanza i cavalieri della Tavola Rotonda, con Artù, sono collegati da un’unica aspirazione a trovare l’elemento salvifico dell’umanità. Uno solo dei dodici, puro e perfetto, riuscirà nell’impresa, ma quello, come Cristo, salverà tutti quanti.

Meraviglia il fatto che i cavalieri della ricerca si muovono in una terra desolata, dove non cresce più vegetazione, colpita dall’infecondità con i campi sterili, la gente sperduta: un mondo destinato a dissolversi, con molte consonanze con la realtà attuale.

La ragione di questo declino sta, come si è detto, nel fatto che il re della Terra, il Re Pescatore, siede infermo, ferito, sterile e incapace di generare. Egli pesca nel fiume ma i pesci non appaiono. La salvezza della sua esistenza è che qualcuno operi la scoperta dell’unguento risanatore della ferita, restituisca salute al re e a sua volta il re la riversi nella terra. L’elemento salvifico è il Santo Graal.

È evidente il riferimento all’antico simbolo cristiano del pesce, immagine di Cristo. Da qui discendono molte altre considerazioni e allusioni che portano nella direzione del Papa che ha l’Anello Piscatorio, in ricordo degli Apostoli (pescatori d’uomini), per cui lo stesso S. Pietro era un pescatore. Da tutto l’insieme discende la necessaria conseguenza che molti vedono nel Re Pescatore la Chiesa malata che ha mancato il suo compito.

 

VIII. Quali conclusioni potremmo tracciare su questa sua esperienza?

Le conclusioni sono già in quanto detto precedentemente. La nostra esperienza di una lettura approfondita del testo di Eliot ha aggiornato la nostra visione che era largamente ancorata al passato portandoci una consapevolezza maggiore della condizione umana di uomini moderni, con le grandi opportunità e gli orribili abissi che ci mette davanti la scienza e la visione scientifica della realtà che sta pervadendo ogni angolo del conoscere, del sapere, del pensare.

Eliot non è un profeta indulgente, consolante, pietoso: non offre consolazione, tanto meno illusioni, ma riporta l’uomo a fare i conti reali con la vita. Davanti a una generale pretesa di felicità, il cui diritto si fissa nelle costituzioni, intesa come benessere, abbondanza, consumismo, materialismo, presenta un’umanità misera d’impegni, presuntuosa, velleitaria che si arrotola sulla definizione stessa della felicità, termine vago al quale si possono dare infiniti significati. Questa impostazione edonistica della vita acuisce l’egoismo, cancella l’amore, spegne la fede.

Il passato, continuamente preso come termine di riferimento con il metodo mitico, ci dice quanto sia grande la nostra miseria morale anche rispetto alle società primitive, che avevano il coraggio di scommettere su un valore, su un senso della vita al di là del brutale dato materiale, della realtà effettuale che è più vana d’un semplice sentimento. In questa forma la vita diviene un incubo, soprattutto quando si possiede di più del necessario:

 

“E ora cosa devo fare? Cosa devo fare?

Mi precipiterò fuori, così come mi trovo

e andrò per la strada

con i capelli scompigliati, alla meglio.

E domani cosa faremo?

Cosa faremo mai?”

Alle dieci l’acqua calda

e, caso mai piovesse, una carrozza chiusa alle quattro.

Poi faremo una partita a scacchi

strizzando occhi senza palpebre

e aspettando un colpo alla porta.