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Il senso della croce

Perché il Signore Gesù Cristo ci ha salvati? Quale è il senso della croce? C’è una chiave di volta che apre il mistero: il parallelismo simbolico che i Santi Padri hanno fatto tra i due alberi dell’Eden, quelli cioè di Adamo ed Eva, e la croce di Cristo.

Nel Giardino dell’Eden Dio aveva piantato molti alberi. Due tra questi erano speciali. Uno era l’albero della vita e l’altro quello del bene e del male. Il Signore, come noto, proibì ad Adamo ed Eva di mangiare del frutto di quest’ultimo, avvertendoli che se fosse successo sarebbero morti. “Ma la donna, tentata dal serpente, vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi” (Genesi 3,4-7). Cosa vuol dire? Ce lo dice un Padre della Chiesa, il Siriaco, Ishodad:

“Essi erano stati creati impassibili nell’ordine degli angeli, ed erano nella contemplazione delle realtà spirituali, ma quando trasgredirono il precetto, da tale contemplazione scesero alla contemplazione delle realtà corporee, e così videro la nudità dell’uno e dell’altro, e furono spinti dal desiderio l’uno verso l’altro”.

Ecco cosa è successo: si è oscurato il loro occhio interiore, il Nous, l’occhio dell’anima, con cui contemplavano le realtà celesti.  Al suo posto hanno prevalso gli occhi di carne, che hanno visto la carne, cioè la nudità. Ma quale è il ruolo dell’albero della vita? Ce lo spiega un altro Padre della Chiesa, Beda il Venerabile (VII secolo), il quale ricorda Proverbi 3,18:

“È un albero di vita per chi l’afferra,
e chi ad esso si stringe è beato”.

L’albero della vita è la croce a cui è appeso Gesù Cristo.

Ma come avviene il passaggio dall’albero della disobbedienza a quello della vita? La disobbedienza dei nostri progenitori viene espiata con l’obbedienza della croce. Dice infatti San Paolo:

“Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò sé stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome…” (Filippesi 2,5-10).  Il Signore stesso ha assunto la natura umana per redimerla dal peccato ancestrale. Come? “facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce”. Questo il punto cruciale. La croce, l’albero della vita è tale per l’obbedienza. Il vero pentimento si ha quando presentandosi l’occasione non si ripete l’errore. Cristo invece di disobbedire come Adamo ed Eva, ha obbedito. E l’obbedienza tanto più è vera tanto più è dolorosa: la morte in croce, appunto. Si tratta a tutti gli effetti di una espiazione come ricorda con esattezza la prima lettera di Giovanni:

“In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Giovanni 4,10). L’obbedienza ha generato il perdono per la disobbedienza. Un’obbedienza, profonda, vera perché dolorosa. Ed era importante che fosse la natura umana ad essere obbediente fino alla morte. Ecco il significato della duplice natura umana e divina. Se Cristo non avesse avuto anche una natura umana, non ci avrebbe salvato, ci dice Gregorio di Nissa. Dunque assolutamente NON è il dolore in sé a guadagnarci il perdono MA L’OBBEDIENZA. UNA VERA OBBEDIENZA, CHE PER ESSERE TALE È DOLOROSA. Ma è l’obbedienza la salvezza perché essa ripara la disobbedienza dell’Eden.

 

Centralità e forme dell’obbedienza

In effetti molti hanno cercato di reagire ad un certo dolorismo diffusosi soprattutto nel 1800 in Occidente, richiamandosi all’incarnazione od alla resurrezione, come fonti della nostra salvezza. Ma senza un reale fondamento scritturistico. In realtà l’inno di San Paolo sopra riportato ed il passo notissimo della prima lettera di Giovanni, sono di una chiarezza tale da scoraggiare qualsiasi arrampicatura sugli specchi.

Ma cosa vuol dire per noi, e per la nostra vita quotidiana, l’obbedienza? Diciamo subito che l’obbedienza, intesa come voto monastico, non riguarda i laici. Il monaco che è senza un vero lavoro dipendente e senza una famiglia, godrebbe davvero di una eccessiva libertà, se nemmeno dovesse obbedire al proprio abate. Dunque se è vero che un mezzo efficace per il nostro progresso e la nostra purificazione è appunto l’obbedienza, dovremo chiarire a chi essa è dovuta. Certo ci sono i 10 comandamenti. D’accordo. Ma pochi si rendono conto che se tutto si riducesse al rispetto del decalogo, la venuta del Cristo sarebbe incomprensibile. Sarebbe bastato estendere a tutti i popoli la sapienza del vecchio testamento. Invece è venuto il Signore Gesù, che con la Sua morte ci ha donato lo Spirito Santo. Dall’esempio del Cristo si ricava una verità semplice e chiara: dobbiamo fare la volontà di Dio, cioè obbedire allo Spirito Santo. E non è detto che sempre e comunque obbedire al capo-ufficio sia obbedire allo Spirito. È urgente chiederselo. Cosa vuol dire obbedire al Signore?

 

Ascoltare la voce dello Spirito Santo

In un certo senso, può essere vero che la gerarchia visibile possa essere segno di quella invisibile e pertanto richiedere la nostra obbedienza.  Ma sta scritto anche che se un cieco guida un altro cieco, entrambi cascheranno nella buca (Luca 6,39). In altre parole, pur tenendo conto del rispetto delle autorità, religiose e non, abbiamo bisogno di andare oltre ad un’obbedienza che si fermi alle realtà visibili. È necessario tentare di alzare un po’ lo sguardo, verso il mondo dello Spirito. In una parola, siamo tutti chiamati al discernimento e bisogna imparare a rispondere. Ma come? Come apprendere ad ascoltare lo Spirito? Vediamo. Il primo banco di prova sta nella vocazione della nostra vita. Quale lavoro intraprendere? Sposarsi? Con chi? Di fronte a queste domande, tipicamente giovanili, ci si sente spesso soli. La malaugurata abitudine di separare tra vite sante (Monaci, preti etc.) e profane (quelle dei laici), produce di solito la tendenza a scegliere queste cose in modo istintivo, di fatto passionale. Con relativi errori e sofferenze. No. No, perché tutto è santo. Lo Spirito governa anche questi eventi perché, come recita il credo, è datore di vita. E i Padri ci assicurano che Egli ispira anche i barbari alla virtù. E governa anche tutte le nostre scelte anche da adulto. Si impara allora molto, osservando certe vite, che appaiono profetiche. Alcune persone infatti, hanno un percorso segnato fin dalla più tenera età. Esse sembrano condotte in modo così chiaro dallo Spirito, da confermare in modo evidente quanto appena detto. Pensiamo a certi bambini che imparano subito a suonare uno strumento e poi diventano musicisti. Altri sono subito dei portenti nel disegno e li troviamo da adulti come artisti o bravi designer. Ancora più frequentemente certe vite sono segnate in modo incontrovertibile fin dalla adolescenza. Queste vite sono profetiche perché ci dimostrano una presenza dello Spirito al nostro fianco, anche quando non lo consideriamo. La maggior parte delle persone, ovviamente, non segue questi percorsi e deve faticare per trovare la propria strada. Non di rado in mezzo ad errori. Tuttavia, proprio guardando alle vite condotte dallo Spirito in modo più chiaro, dovremmo chiederci in che modo ascoltane la voce. E questo nelle scelte di tutti i giorni. Potremmo rispondere chiedendoci: cosa prova l’uomo quando lo spirito gli parla?  Le scritture ripetono in più punti: pace e gioia. Analizziamo nel dettaglio questi due aspetti dello Spirito, al fine di riconoscere dai nostri sentimenti, la volontà di Dio.

1 – La Gioia. Va distinta dalla contentezza che è superficiale. Questa è suscitata da eventi come un aumento di stipendio, il superamento di un esame etc. Il segno caratteristico sta in una certa sottile forma di eccitazione, sempre presente, dal poco al molto. Si è talvolta “euforici”, si brinda, si festeggia. A volte non si riesce a prendere sonno perché si è agitati, sia pure in senso positivo. Ecco. Qui NON sta lo Spirito. Perché manca la pace. Ciò non vuol dire che la contentezza sia negativa. Semplicemente non è un segno sicuro della presenza dello Spirito. La gioia invece, è immancabilmente accompagnata dalla serenità, dalla posatezza, dalla pace, appunto. Chi l’ha provata ha imparato a distinguere gioia da contentezza, perché ha avvertito la prima chiaramente come più profonda.

2 – La Pace. Ci sono occasioni nella vita in cui avvertiamo il superamento di alcuni problemi che ci procuravano ansia. Avvertiamo allora un piacevole senso di tranquillità. Tuttavia se le circostanze che destavano preoccupazione, si ripresentano di nuovo si genera ancora ansia e la tranquillità è persa. La Pace si manifesta in modo diverso. Essendo un sentimento più profondo si caratterizza per essere presente proprio in mezzo alla bufera. È un suo segno caratteristico. In ogni situazione fa sentire “al proprio posto nonostante tutto”.

 

Conclusioni

Per quanto in modo sintetico abbiamo qui proposto due semplici passi per provare ad ascoltare la voce dello Spirito nella nostra vita. Si tratta di un modo un po’ più maturo di obbedire al Signore e di fare la Sua volontà. Occorrerebbe dire molto di più, ma non mancherà l’occasione di farlo. L’importante è cominciare a meditare, i vari modi in cui possiamo vivere l’obbedienza come nostro processo di purificazione.