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Chi ha già fatto un’esperienza religiosa

E’ un capitolo delicato e difficile da scrivere. La ragione è che le esperienze di vita religiosa, da parte di chi ha provato e poi rinunciato, sono le più varie. Come sono molti i diversi motivi dell’abbandono, e molte e varie le reazioni a questa esperienza.  C’è chi ha provato in un postulato per pochi mesi, chi torna indietro dopo alcuni anni.  C’ è chi ha vissuto serenamente la cosa e chi con profondo dolore. A volte con una pena che riaffiora di tanto in tanto, lungo il corso di una intera vita. Diciamo subito che questo capitolo e questo blog non si occupa di chi, dopo qualche mese, si è reso conto che la pratica di vita spirituale proposta risultava un troppo.  Il troppo può essere accompagnato, in queste circostanze, dalla nostalgia di ciò che avrebbe potuto fare di positivo nella società, e da un vivo desiderio di riprendere le proprie abitudini. In genere queste situazioni sono vissute, alla fine, con serenità. Mi sembra, in questo caso, che si possa essere di fronte a chi ha certamente saputo mettersi in discussione, concludendo poi di non avere una vocazione religiosa. Ottimo. La vita successiva segue percorsi laici, non di rado con un buon impegno in parrocchia, o in gruppi ecclesiali.  Questo blog è dedicato invece a chi ha vissuto il rientro a casa con un dolore che, se non è stato consecutivo alla scelta del rientro, è stato presente in seguito in varie forme.

Vi sono infatti persone, donne e uomini, che hanno vissuto l’abbandono della vita religiosa come una perdita. Tra questi sono da considerare anche coloro che, delusi dal non aver trovato un ambiente realmente consono alla scelta del celibato consacrato, hanno deliberatamente optato per una vita da laico, sia pure a malincuore. Può darsi che questi ultimi cercatori di Dio abbiano rimosso, a causa della delusione, il desiderio iniziale. Questo può serpeggiare nascostamente nella loro vita per emergere poi in alcuni momenti. Altri hanno però dovuto lasciare, magari dopo alcuni anni, a causa di problemi familiari di vario tipo: contrasto con la famiglia contraria alla loro scelta, improvvisa malattia di un familiare da dover urgentemente assistere, difficoltà economiche, morte di un genitore, insorgere di malattie che controindicavano la permanenza in una comunità, ed altri motivi ancora. In questi casi spesso siamo di fronte ad una condizione dolorosa, oppure più o meno insoddisfacente. Infine vi è chi, durante l’esperienza, si è reso conto di essere troppo sensibile per vivere in comunità, oppure ha vissuto, durante un periodo di prova, un senso di ansia o nervosismo inspiegabile, insonnia, mal di testa, senso di disagio e tensione muscolare. In una parola la perdita della pace. In qualche caso si è provata gioia a pregare con regolarità, ma qualcosa non ha funzionato. Anche questa è condizione in ultima analisi problematica, spesso vissuta con amarezza, e con un senso di dubbio ed incertezza. Non molto dissimili i sentimenti di chi non è stato accettato per i più svariati motivi. Questo blog si propone di affrontare e discutere con i protagonisti tutte queste condizioni, nel tentativo di interpretarle alla luce della fede, restituendo ad esse un senso.

 

La sopravvalutazione della vita religiosa istituzionale

Cominciamo dall’origine del dolore. L’impressione che si ha, forse sbagliata, e forse i lettori di questo blog sapranno correggerla, è che un aspetto del dolore di tutte le varietà di rinuncia, sia legato alla sopravvalutazione della vita religiosa istituzionale. Questo sembra valere sia per chi praticandola ne è rimasto deluso, sia per chi, per svariate ragioni, pur desiderandola, non ha potuto praticarla. L’entusiasmo che suscita in noi la vita dei santi ed i racconti di certe vite eroiche di cui si alimenta una certa letteratura, ha molti lati positivi. Forse è insostituibile. Tuttavia bisogna tenere presente, che ha alcuni effetti collaterali.  La visione della santità nella sua versione eroica ed estrema (non sempre corrispondente alla realtà storica), può trasferire la vita cristiana in una dimensione immaginaria. Anche se è vero che tale “Latte spirituale” ha fatto bene a tanti, è anche vero che una volta mossi i primi passi nella fede, è necessario svezzarsi, e cominciare a nutrirsi di cibo solido. Cioè, fuor di metafora, cominciare ad esercitare la fede nella banalità quotidiana.  Più cresce la fede e più corto diventa il raggio della nostra interpretazione degli eventi. A volte sembra mancare la meraviglia per le virtù che vediamo esprimere nelle persone che incontriamo tutti i giorni. Al contrario non è detto che frati e suore raggiungano sempre grandi vette. C’è da chiedersi infatti se non ci sia una   sopravvalutazione della ascesi seguita in certi contesti religiosi. Essa è da ammirare con gioia, ma va tenuto conto che uno dei limiti delle comunità religiose, è che a tutti viene proposta la stessa cosa. Le differenze individuali possono essere valorizzate ma non sempre questo succede, né accade in modo sufficientemente vario. Non c’è niente di male, vorrà dire che quelle comunità selezioneranno ed accoglieranno, quelle persone per le quali quel tipo di ascesi è adatta.

 

San Pacomio il fondatore delle comunità monastiche, teneva conto delle differenze individuali

Al tempo di oggi non tutti possono seguire l’esempio di San Pacomio, il fondatore della vita cenobitica. San Pacomio inseriva i monaci in tante diverse comunità quante erano le lettere dell’alfabeto greco. E ciascuno portava sul petto la lettera di appartenenza. La differenza tra i vari gruppi si basava sul carattere e sul livello spirituale raggiunto. Tale era la consapevolezza, fin dagli inizi della vita comunitaria, della necessità di diversificare i percorsi. Nella Ortodossia, a differenza che nel Cattolicesimo, esiste il modo di vita religioso definito Idioritmico. Uno stile modellato sulle esigenze spirituali del singolo. Quello di cui purtroppo molti non si accorgono, è che la loro chiamata alla vita religiosa resta valida anche dopo un rientro a casa, ma che necessita di una maggiore libertà. La libertà non è in tali casi una manifestazione di orgoglio, ma una profonda e seria esigenza spirituale, di cui molti non si rendono conto. Questa è attestata, per esempio, in Giovanni Climaco. L’autore della “Scala del Paradiso”, infatti, consigliava la vita solitaria a quei monaci che si dimostravano molto sensibili. In Occidente queste attenzioni paiono dimenticate, a favore di una irreggimentazione che ha i suoi lati positivi, ma appunto effetti collaterali dolorosi. E non si tratta solo della ascesi. Tutto l’impegno di vita per il Signore, può necessitare di una adeguata personalizzazione.

 

L’inganno della falsa coscienza

Eppure molti non riescono ad entrare in questa dimensione, a vivere questa consapevolezza. Infatti a volte il ritorno a casa assume aspetti distruttivi. Si è convinti o si è stati convinti di aver sbagliato. Dunque tutto ciò che ha preceduto l’esperienza di vita religiosa è sbagliato o quasi. Si trattava per queste persone di una falsa strada che non ha portato a niente. Non c’è niente di peggio che assumere questo atteggiamento. Rinforza questa   distruzione l’idea che il matrimonio possa essere un ripiego, una via di serie B in confronto al celibato consacrato, che invece sarebbe di serie A. Per queste persone sono prevedibili momenti di depressione dell’umore. Da dove nasce questa fantasia maligna?

Vi è stata, con un certo modernismo, la penetrazione nella Chiesa Cattolica, l’accettazione del ritornello caro agli Atei ed agli Agnostici: la religione non è che una evasione dai problemi della vita. Questa teoria è stata trasferita sulla vocazione religiosa, ma questa volta sono preti e monaci a sostenerla. Nelle note a commento della vita di un grande Santo del passato, un Dotto dei nostri tempi (non cito con esattezza la fonte per pudore), fa notare che, all’epoca bizantina, molti contadini si facevano monaci per sfuggire agli esattori delle tasse dell’imperatore. Apparentemente sembra quasi plausibile, ma pensiamoci un po’. Questi contadini per non pagare le tasse, siamo d’accordo, certamente esose, rinunciavano alla libertà personale, mettendosi all’obbedienza strettissima di un abate, rinunciavano ad affetti e sessualità, si mettevano a mangiare una sola volta al giorno una pagnotta (era la dieta dei cenobi del deserto Egizio), passavano ore ed ore a leggere e cantare salmi. E questo tutti i giorni, continuando però a lavorare, facendo ceste di giunco, il cui ricavato però non andava a loro ma al monastero…. Suvvia andiamo….un po’ di logica. Sono tesi insostenibili anche solo alla luce del buon senso. Eppure il tema della “evasione” è dominante in certo “discernimento” vocazionale cattolico (virgolettato). Siccome non si è trovata la ragazza giusta o il lavoro giusto o, sia pure, tutti e due, ci rinchiudiamo in una cella monastica o in convento, rinunciamo definitivamente ad una vita normale con famiglia, figli, lavoro, ci mettiamo a cantare tutto il santo giorno salmi ed inni spirituali, usiamo il tempo libero per lavorare lo stesso, per esempio nei campi. Accettiamo, in certi casi, una attività a cui non siamo abituati, ci mettiamo a studiare teologia, rinunciamo alla nostra volontà, mettendoci nell’obbedienza e su tutto questo desideriamo anche fare dei voti perenni. Ma davvero è una evasione verso qualcosa di più facile e conveniente? Tutto viene visto in rapporto a quello che si sfugge e non in rapporto a quello che si desidera, con un’evidente sproporzione tra il dare e l’avere. L’ossessione che produce questa contorsione logica, è quella della libera scelta. Chi sceglie deve essere libero da condizionamenti. Un mito. Ma quando mai!  Dietro a certe “scelte libere” si potrebbe piuttosto celare una buona dose di orgoglio. Una dote di partenza poco utile. Qualche condizionamento invece, potrebbe essere sano, indurre all’umiltà e facilitare il passo a chi in fondo è solo all’inizio.  In chi interrompe l’esperienza e torna indietro, non è raro ascoltare ritornelli autodistruttivi, come: volevo evadere dai miei problemi! Era una evasione…Ma c’è di più: a sancire interpretazioni di questo genere, vengono a volte chiamati degli psicologi.  Purtroppo l’idea potrebbe essere anche buona, se ci si vuole accertare che non ci siano patologie in atto. Il problema che i religiosi non conoscono, è che la psicologia come scienza, è ancora ai primi passi. Ha scoperto molte cose nei processi legati alla conoscenza ed alla lettura e della conoscenza, ma molto poco nell’area emotivo affettiva. I test psicologici di uso clinico sono spesso criticati, e con ragione visto il frequente prodursi di false diagnosi (vedi i test proiettivi). Un grande psicologo come Howard Gardner dichiarava che la Psicologia, al momento, ha scoperto ben poco della mente umana. Il risultato è spesso una diagnosi di “immaturità”, formulata sulla base dei criteri soggettivi e immaginari.  E’ un ulteriore pietrone sul collo del povero malcapitato. Pietrone che alimenta l’atmosfera distruttiva che vive colui che torna.

 

Cominciare a prendere coscienza della prova attraversata per cominciare a superarla

Il risultato consiste in un inaridirsi dei sentimenti spirituali, in un volgersi con decisione verso una vita “normalizzata”, nel mettere da parte ogni istanza di dedizione giudicata ingannevole. La situazione in certi casi può rimanere così a lungo, gettando il credente in una condizione di insoddisfazione cronica, di cui non si rende, a volte, neanche conto. In certi casi, dopo anni di “deserto”, si riaccende una fiammella e tutto o quasi ritorna. Altre volte purtroppo no. Tutto tace. Alcuni di fronte al riaccendersi di quel fuoco, che non può essere spento, cominciano ad avvertire sensi di colpa, mentre altri continuano a minimizzare.  Altri ancora si consolano, sottolineando la pochezza umana e spirituale dell’ambiente che avevano trovato. Ma questa, purtroppo, non è una medicina. Non c’è sollievo, che se ne sia coscienti o no.

 

La gioia può ritornare

Tutto questo succede perché si perde di vista il nocciolo della chiamata di Dio. Si perde di vista il desiderio di dare tutto il cuore al Signore e che Lui sia tutto per noi. Si perde di vista la gioia e l’amore che desta questo sentimento, a vantaggio di analisi e costruzioni mentali. Alla fine, qualsiasi cosa sia successa, anche se si è saltati oltre il muro del monastero per andare con una prostituta, anche se ci si è ubriacati od altro possibile orrore, quello che conta è quel momento in cui l’Eterno ha fatto irruzione nella nostra vita. Si potrà concludere che quella tale situazione non faceva per noi.  Ma non che non vi sia stato un appello. Quello che conta è il fuoco che la chiamata ha acceso. Quello che conta è l’amore che sentiamo per Lui, anche se  nascosto o quiescente.  Questo blog vorrebbe essere allora un aiuto ed un luogo di confronto, che possa permettere di ravvivare la fiamma della chiamata e della vocazione. Possiamo ravvivare, mantenere e sviluppare questa fiamma, ritornando a quella gioia che si è perduta e che sembra impossibile da recuperare. Fiducia e speranza. Può ritornare. Eccome! E divenire più alta e vivace.