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Da dove nasce la nostra salvezza?

Meditiamo il seguente passo del Vangelo di Giovanni:

“E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Giovanni 3,14-17).

Ma perché tutto questo? Poteva il Signore limitarsi a perdonare e basta, senza morte, croce etc.? Se ci si pensa bene, il mistero del Cristo non è facile da comprendere. Perché Signore? Perché il Golgota? Perché la Croce? È un vero mistero. Insondabile. E come tale siamo chiamati ad accettarlo, fermandoci con la ragione sull’orlo di ciò che va oltre ogni umana comprensione. Tuttavia pur rispettando il mistero, possiamo avvicinarci (da lontano) al senso profondo dell’incarnazione facendo, da discepoli, quello che ci ha chiesto il Maestro: “Imparate da me…” (Matteo 11,29). Proviamo con questa semplice riflessione. Quando riteniamo di aver superato un errore fatto? Quando ce ne pentiamo. E quando dimostriamo di esserci pentiti? Quando si ripresenta l’occasione dell’errore e questa volta, memori del cambiamento di rotta, non lo ripetiamo, e ci comportiamo diversamente. Ora poniamoci il problema dei problemi: come potevamo superare quell’errore fatale dell’umanità, che caratterizzò il Peccato Ancestrale? Non potevamo, come umanità, tornare indietro e rispondere picche al serpente che ci tentava? Davvero no. Poi forse l’avrebbe potuto fare qualcuno, ma difficilmente tutti gli uomini. E come superare, come umanità,  quell’inclinazione al male che oscurava il nostro cuore, e che ci spingeva lontano da un vero pentimento? Forse possiamo avvicinarci al mistero della Croce e della Redenzione passando da questo lato. E come? Lo dice il Vangelo: “…Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito,…”. L’uomo non poteva farcela a pentirsi veramente ed a redimersi. Nell’economia della Salvezza era scritto che doveva essere Dio stesso a farlo. Il Figlio di Dio. Incarnandosi, e cioè prendendo su di sé la natura umana. Dimostrando il pentimento: l’uomo aveva disobbedito al comando del Signore. Questo il peccato fondamentale: l’uomo aveva disobbedito. Ora l’umanità, assunta in Cristo nell’incarnazione, obbediva accettando la Croce. Ecco perché erano essenziali in Cristo le due nature, quella umana e quella divina. E due nature complete. Una natura umana totale cioè, che comprendeva anche una psicologia ed una volontà distinta da quella divina. Se non fosse stato così, l’umanità non avrebbe partecipato al supremo atto di “Pentimento” del Cristo, e cioè all’obbedienza redentrice della Croce. “ … e pregava, dicendo: Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu! (Matteo 26,39)”. Ecco l’obbedienza riparatrice dell’umanità. Un pentimento che nasce dall’unione delle due nature, umana e divina, senza confusione né divisione. Davvero un mistero!  Sì, perché la ragione si ribella: come fa Dio che è infinito ad unirsi con una natura umana che è finita? La ragione! L’incarnazione è quel banco di prova che ci dimostra che la fede dona una conoscenza superiore alla ragione. Con la razionalità si fanno infatti progressi è vero, ma solo fino ad un certo punto. Oltre arriva solo la fede. Un passo che molti eretici non sono riusciti a fare. Essi hanno visto solo l’uomo, oppure solo il Dio. E’ mancata loro l’ispirazione decisiva dello Spirito Santo, che ci fa dire: Gesù è il Signore.

 

Guardare al Cristo come al Serpente di Mosè

“E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo,…”. Nel libro dell’Esodo Mosè ebbe un comando dal Signore: se avesse fabbricato dei serpenti di rame avrebbe salvato il suo popolo. Infatti, chi nel deserto fosse stato morso da un serpente velenoso, guardando al serpente avrebbe avuto salva la vita. Esso era di rame ed era innalzato da Mosè sopra un’asta.  L’Evangelista Giovanni vede questo episodio dell’Antico Testamento, come una prefigurazione della salvezza che ci viene dal Cristo. Chiunque crede in Lui, innalzato come il serpente sopra un’asta, sarà salvo. Il morso del serpente è appunto figura perfetta di ciò che avvenne nel Peccato Ancestrale, quando la tentazione del serpente fece cadere i nostri progenitori. Ma cosa vuol dire guardare al Messia? Cosa significa credere in Lui? Vuol dire seguirlo, partecipare alla sua obbedienza.  Vuol dire ottenere dal sacrificio di Cristo lo Spirito Santo che divinizza la nostra carne, permettendoci di superare la nostra debolezza. Si tratta di fare come Lui, anche se come Lui vorremmo non soffrire. Con lo Spirito Santo siamo rivestiti di Cristo, come dice San Paolo, e non siamo più noi, ma Cristo che vive in noi. Dio si è fatto uomo, perché l’uomo divenisse Dio, come ricordano i Padri. 

 

Seguire Gesù nell’obbedienza

Approfondiamo seguendo ciò che ci dice il grande Teologo dell’Incarnazione, San Massimo il Confessore: (Dalla Filocalia, Duecento Capitoli, II,27) “Finché io sono imperfetto ed insubordinato, non ubbidendo a Dio mediante la pratica dei comandamenti, e finché  non sono divenuto perfetto nella conoscenza per il mio sentire, anche Cristo per causa mia è ritenuto imperfetto e insubordinato per quanto riguarda me: io infatti lo diminuisco e lo mutilo, non crescendo insieme con lui secondo lo spirito,  mentre sono corpo del Cristo e membra per la mia parte” (1 Corinzi 12,27). Sembra una autentica enormità! Noi diminuiamo il Cristo (per quanto riguarda noi stessi)! Ma come è possibile? Non fa tutto lui al posto nostro? Eppure San Massimo ha ragione, come sempre. Con il Battesimo siamo inseriti nella Chiesa, e la Chiesa è il Corpo di Cristo. E con il Corpo di Cristo, appunto, viviamo la Sua Croce redentrice e la Sua Resurrezione, e così la Sua salvezza. Proprio come San Paolo ci spiega nella lettera ai Corinzi che San Massimo cita. Dunque, con la forza che ci dona lo Spirito, ottenuto mediante i Sacramenti della Chiesa, possiamo diventare Discepoli. Fare nostra l’obbedienza di Gesù. Partecipare al pentimento. Vivere l’obbedienza come il segreto redentivo del Cristiano. Come quella purificazione del cuore che ci apre alla percezione della Divina Presenza nella nostra vita. E infine partecipare alla Sua resurrezione. Tenendo dunque gli occhi fissi al Cristo Salvatore come gli Ebrei al serpente di Mosè, seguiamo il percorso dell’obbedienza.  Come San Paolo sempre suggerisce, muoviamoci dal più semplice al più complesso, come l’alimentazione dell’uomo, che va dal latte al cibo solido:

L’ obbedienza naturale

È la più frequente ed intensa, ma è anche la più trascurata e la meno valorizzata. Crediamo a volte di essere obbedienti perché seguiamo, giustamente, i consigli del nostro confessore. Ma poi non ci rendiamo conto degli appuntamenti che l’obbedienza ci fissa, praticamente ogni minuto della giornata. Ogni minuto! La sperimentiamo nella famiglia. I figli con i genitori, ma anche i genitori con le esigenze dei figli. La moglie col marito, ed il marito con la moglie. La vita familiare esige obbedienza ogni momento. Ce ne accorgiamo poco a volte, perché siamo guidati dall’affetto. Ma se ci fermiamo un attimo a pensare, è proprio così. E con i bambini piccoli è un’obbedienza molto stretta. Non si possono lasciarli soli un momento.

Poi c’è l’obbedienza nel lavoro. I dipendenti verso il datore di lavoro, ed i lavoratori autonomi verso i clienti. Pensiamoci bene: lavorare significa fondamentalmente obbedire. Praticamente ogni minuto. Il commerciante con i clienti. L’impiegato con gli utenti. La maestra con i bambini. Ogni minuto! Non a caso il Signore, dopo la cacciata dal paradiso terrestre, impose il lavoro all’uomo, come espiazione dalla disobbedienza. In tutti questi casi interviene una nostra mancanza di consapevolezza, che è figlia della disattenzione. Non diamo valore a quello che facciamo, perché non ci pensiamo, presi come siamo dagli affanni e dalle preoccupazioni di ogni giorno. Bombardati da stimoli di ogni genere, telefono, tv, giornali etc. tutto concorre ad impedirci di pensare. E invece qui sta il nocciolo. Fermiamoci, riflettiamo e rendiamocene conto. Abbiamo in mano delle monete d’oro che crediamo di bronzo. Abbiamo urgente bisogno di quella consapevolezza che restituisce il giusto valore alle cose quotidiane. Viverle consapevolmente obbedienti per il Signore, trasforma tutta la nostra vita in un incenso profumato che sale odoroso al cielo, tra le grida di giubilo dei Santi e degli Angeli!

  • Obbedire ai comandamenti.

Poi ci sono i comandamenti. Letti bene però. Qualcuno dice “Io non rubo” e poi si scopre che non paga le tasse, o non mette in regola la badante. Qualcuno dice “io non uccido”, ma poi colpisce a morte il prossimo con le parole, offendendo, insultando oppure, più furbescamente, con la maldicenza. Qualcuno dice di essere fedele alla moglie, ma poi si compiace di immagini pornografiche. Non è finita.  Il nostro Signore Gesù Cristo va molto oltre. Non ci sono infatti solo i comandamenti dell’Antico Testamento, ma anche quelli del Nuovo. Dice Gesù: “Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori,…” (Matteo,5, 43-44). E poi ancora, Gesù invita a non cercare l’approvazione e le lodi degli altri (Matteo 6,1-6). Insiste perfino nel non mirare ai troppi guadagni, anche se onesti (Matteo 6,18-19). Un percorso che si fa sempre più impegnativo, ma possibile. Come già detto, la realizzazione in noi della Divino-umanità del Cristo, dono del Suo sacrificio, ci permette ciò che non sarebbe ordinariamente possibile.

  • L’obbedienza nelle ordinarie tribolazioni della vita

Vi sono a volte prove molto radicali, a cui è difficile se non impossibile dare una risposta. La morte di un bambino, un grave terremoto, etc. Nelle prove profonde ed apparentemente distruttive, la miglior cosa è il silenzio. In tal caso proponiamo una catechesi specifica, con il link in fondo a questo articolo. Ma molte sono le tribolazioni ordinarie. Le malattie, gli ostacoli nella carriera lavorativa, il tradimento degli amici, le ferite nei sentimenti, le nostre stesse cadute, etc. Contro di esse certamente bisogna combattere fino alla risoluzione del problema. Ma nonostante gli sforzi, potremmo continuare ad avere delle difficoltà. Già i padri del deserto suggerivano a questo punto, di interpretare il male occorso, come una forma di ascèsi. In pratica, come una cura sollecita delle nostre passioni. Esistono due forme di ascèsi. Una detta attiva, ed una detta passiva. In quella attiva siamo noi a scegliere. Per esempio potremmo decidere di mangiare solo due volte al giorno, oppure di dormire di meno. In quella passiva è Dio che decide, permettendo una tribolazione a nostro vantaggio. I monaci di solito, sostengono che questa seconda forma di ascetica, quella passiva, sia la più importante. Infatti, ai digiuni, alle veglie ed alle privazioni, ci si abitua abbastanza facilmente. Soprattutto se si inizia da giovani. Più difficile sopportare pazientemente una maldicenza, una vessazione o una malattia invalidante. Per i Padri, nulla purifica di più, dell’abbandono confidente alla Divina Provvidenza nelle tribolazioni, quando tutto si è tentato per risolverle. Ed ecco l’obbedienza. Obbedire a ciò che Dio ha disposto per noi. Non c’è bisogno di capire, di darsi una ragione, magari spirituale. Dio ha disposto così e noi lo lodiamo, obbedendo nella tribolazione. Ecco il vero discepolato. Ecco l’obbedienza purificatrice della Croce.

  • L’obbedienza nella lotta contro i pensieri malvagi e le tentazioni

Gregorio il Sinaita, ricordava come la lotta contro i pensieri malvagi, sia come un tipo di martirio. Gli inviti a seguire il male nella tentazione, ricalcano in fondo gli inviti a sacrificare agli dei, spesso proposti in cambio della libertà, ai Cristiani vittima delle persecuzioni. I pensieri malvagi sono, secondo i Padri, una persecuzione che può essere vissuta nell’umiltà e nell’obbedienza della lotta spirituale. Lotta che vede protagonista la grazia, ogni qual volta ammettiamo di essere deboli, e bisognosi di aiuto. Affrontare con coraggio il combattimento interiore nel nome di Gesù, e con il nome di Gesù, è una forma di obbedienza e di martirio. È anche questa una sottomissione al Padre, che ha permesso tali circostanze. Tutti gli asceti raccomandano di affrontare con fede e nella pace il combattimento, sapendo che esso promuove lo sviluppo della pazienza, e dell’umiltà. Dunque l’obbedienza del vero discepolo. Dunque il miracolo della redenzione ad opera della croce.

 

L’unione senza confusione delle due nature in Cristo profezia del mondo nuovo

Ma c’è anche la resurrezione. Non solo la croce. Il cammino del cristiano è volto, nella vita terrena, a sviluppare come raccomanda San Paolo l’uomo interiore, cioè il Cristo. Cioè, tramite la grazia dello Spirito, l’unione delle nature umana e divina. Di terra e cielo. Di Spirito e Materia. È un anticipo della nuova creazione, del completamento del ciclo creativo del Signore, che si concluderà con lo stabilirsi della Gerusalemme celeste, dove Dio sarà finalmente Tutto in Tutti.  Tutto risplenderà come sul Tabor, per la gioia dei salvati.  Cioè di coloro che saranno ammessi al completamento della creazione, per avervi partecipato già da ora, durante la vita terrestre. È l’esito felice dell’obbedienza della croce. Scopriremo che guardare con fede al Cristo, appeso sul legno come il serpente di Mosè, costituisce solo l’inizio di un’avventura meravigliosa.

 

 

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