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Cristo è la luce che illumina ogni uomo

“In Lui era la vita e la vita era la luce degli uomini” (Giovanni 1,4) “…veniva nel mondo la Luce vera, quella che illumina ogni uomo”…(Giovanni 1,9).

Come possiamo vivere ed intendere questo mistero di luce? Vi sono fondamentalmente due modi di interpretare la parola “luce” del Vangelo. Il primo coglie soprattutto il suo aspetto intellettuale. Luce diventa capire, altre volte intuire, altre volte “avere una improvvisa illuminazione”. Insomma, si tratta di comprendere qualcosa che ci era risultato difficile. Ma è davvero così? Forse si può dire che qualche aspetto del genere c’è, ma non sembra soddisfare del tutto. In tutto ciò sembra esserci una generale sopravvalutazione dell’intelligenza. Questo limita il valore stesso, del significato spirituale del termine “luce divina”. Per riuscire ad andare a fondo alla questione, forse è utile affidarci alla liturgia.

 

Le veglie all’Athos: un dono per tutta l’umanità

Il secondo modo di intendere “Luce Divina” lo si coglie in modo forse insolito, durante una liturgia. Un po’ in tutte le liturgie, ma soprattutto nelle veglie. Si possono criticare, spesso con ragione, i monaci Athoniti, ma in una cosa sono un autentico dono: nelle veglie. Assistere ad una Agripnia (veglia) all’Athos illustra al fedele, tutta una intera teologia, senza bisogno di leggere libri. Il pellegrino scopre qualcosa di sorprendente. Scopre che la Verità non è un concetto o una frase che corrisponde alla realtà, come dicono i filosofi moderni. Anzi, scopre che proprio idee e parole, rappresentano un fallimento. Un tentativo di afferrare la Verità che, non riuscendo, scivola verso un semplice surrogato. La Verità infatti si manifesta come una “Presenza”, una Luce appunto. Come una Presenza Divina che illumina. Ci si sente sazi. Non abbiamo più bisogno di cercare la Verità, perché l’abbiamo trovata. È lì. E ci ama. Ci investe tutti interi. Ci scalda. Ci “tocca”. È incredibile. Si rimane stupefatti. Come ci fanno pena allora i fiumi di inchiostro, le parole vane, i tentativi penosi di afferrare con i discorsi ciò che si propone da Sé a chi vuole. Ma come riusciamo a “sentire” tutto ciò? Con cosa? Come sentiamo la luce? È allora che ci viene in soccorso il vocabolo patristico “Nous”. Spesso tradotto a torto come “intelletto”, esso nell’intendere dei Padri, sta per senso spirituale. È un senso, una sensibilità, che non è propria del cervello ma del cuore. È la punta superiore del nostro cuore. L’occhio descritto nella parabola della lampada del Vangelo (Marco 6,22-23).

 

Una luce che ci fa conoscere noi stessi

Quando qualcosa di “forte” ci accade, ecco che cominciamo a riconoscerne la natura anche quando essa si presenta più debolmente. Ritroviamo allora la Verità nelle liturgie eucaristiche, nella comunione e persino nella atmosfera assorta di una chiesa vuota. Ma come essere sicuri di non sbagliare? Di non cadere in un tranello? In un tiro malvagio del nemico? Semplice: la “Luce Divina” non ci inebria facendoci credere di essere degli eletti, ma proprio perché divina, mette in evidenza il nostro peccato. Ci fa vedere in trasparenza, attraverso la luce, la “trave che portiamo nell’occhio”. Ci mostra nella nostra povertà, nelle nostre passioni. Ci ricorda errori dolorosi. Tocca, fasciandole, le ferite del cuore. Genera umiltà. Ed è allora che comprendiamo che la vera umiltà è un dono, e consiste nel conoscere sé stessi. Basta recitare la parte del modesto. È tutta fuffa. Non siamo noi a “diventare” umili a colpi di giochini di parole. Ci pensa la Grazia a toccarci ed a guarirci.

 

Riconoscere la grazia: quali sono le nostre passioni?

La grazia divina non sempre opera in modo eclatante, presentandosi esclusivamente sul versante dello Spirito o dell’Intelletto. Più spesso opera seguendo il modello dell’incarnazione, cioè unendo l’azione dello Spirito a quella della carne. In poche parole, di solito agisce facilitando in noi l’accettazione di ciò che è conoscenza di noi stessi. Rompendo le nostre resistenze, piuttosto che con illuminazioni folgoranti. Ecco che allora si rende necessario uno stimolo.

A questo hanno tradizionalmente provveduto i Padri. Essi ci aiutano a mettere ben a fuoco il miracolo dell’umiltà, raccontandoci in che modo l’uomo ha cominciato a rivolgere amore e desiderio verso sé stesso invece che verso Dio. Lo hanno fatto cogliendo in anticipo di secoli e secoli, quello che la medicina moderna ha capito con fatica, solo ora. L’uomo organizza il proprio modo di vivere la realtà, reagendo ad una emozione che tende a vivere più frequentemente delle altre. In pratica ad una o due passioni. Come insegnano i santi Padri, si possono identificare tre grandi categorie di Passioni:

  • Le passioni che sono il frutto della distorsione del Desiderio
  • Le passioni che sono frutto della distorsione dell’ira
  • Le passioni che sono il frutto di una anomalia dell’intelletto.

In tutto i Padri ne descrivono circa dieci. Seguendo il loro esempio possiamo mettere a fuoco meglio chi siamo, identificando il nostro temperamento ed insieme, ciò che nella vita abbiamo il compito di superare. Il Signore ci chiede infatti di trovare in noi “l’uomo interiore” (Efesini 3,16). Quello vero. Quello frutto del controllo delle nostre passioni e distorsioni.

Per chi volesse cimentarsi nel mettere a fuoco, con l’aiuto della Divina Presenza, il proprio temperamento, riportiamo una descrizione moderna e dettagliata delle dieci passioni fondamentali. Noi le viviamo certamente tutte, ma generalmente in modo più intenso una o due.

Eccole:

LE ANOMALIE DEL DESIDERIO: GOLA LUSSURIA E TRISTEZZA

https://adoratori.com/le-anomalie-del-desiderio-gola-lussuria-e-tristezza/

LE ANOMALIE DELLA POTENZA IRASCIBILE O IRA

https://adoratori.com/le-anomalie-della-potenza-irascibile-o-ira/

 

LE ANOMALIE DELL’INTELLETTO: VANAGLORIA, SUPERBIA, ORGOGLIO E ACCIDIA

https://adoratori.com/le-anomalie-dellintelletto-vanagloria-superbia-orgoglio-e-accidia/

Quello che viene proposto in questi tre articoli può essere utilizzato, a condizione di farlo con calma, dedicandogli del tempo. Conoscere meglio sé stessi non è una passeggiata. Ci vuole impegno. Ma è l’impegno migliore che si possa prendere in un periodo quaresimale. È infatti attraverso una buona conoscenza di sé stessi, che si può davvero fare una confessione profonda ed efficace. Infatti molti perfezionisti non considerano un peccato tale attitudine, ma un merito. Succede perché non se ne conosce l’origine. Così succede per chi usa abbondantemente e bene la parola. Ci si crede dei predicatori, salvo poi scoprire che tale abilità oratoria proviene talvolta dal vizio della gola. Si può essere molto generosi, credendo di avere molto da dare agli altri, senza rendersi conto che tale atteggiamento non è carità, ma superbia. Si può credere di essere un vero esempio di umile obbedienza, salvo poi scoprire che siamo dominati dalla paura. Andando al fondo di sé stessi si possono avere amare sorprese, come un po’ avevamo anticipato. Ma è necessario. È necessario e indispensabile per trovare l’umiltà, ma non solo. Come vedremo nel prossimo articolo, conoscere le nostre attitudini sbagliate può essere fonte di lode e di ringraziamento del Signore. Egli, infatti, nel corso della nostra vita, ha disposto circostanze ed eventi, che le hanno in parte corrette. Le Sue “dita” meravigliose ci hanno plasmato come vasi nelle mani del vasaio. Questi interventi della Divina Provvidenza potrebbero però non essere stati capiti. Potremmo aver vissuto male queste correzioni. Come fossero ostacoli incomprensibili. È ciò che avviene nella cosiddetta ascési passiva. Come anticipato parleremo di queste cose, perché ci consentiranno di reinterpretare parte della nostra vita in senso spirituale. E sarà fonte di pace. Ma per ora fermiamoci qui.

 

Conclusione

Nella liturgia e nella eucarestia, siamo investiti da una luce di grazia, benefica e miracolosa. Cercare di conoscere le passioni che maggiormente ci dominano, al fine di vivere l’uomo interiore, è la cosa più bella che possiamo fare per accompagnare l’azione di questa grazia su di noi. Non è poi così difficile. E il cambio è vantaggioso: l’umiltà che ne deriva ha un valore inestimabile, perché attira ancora grazia su di noi.